lunedì 12 maggio 2014

Delle testimonianze (2)

Dopo questa introduzione a carattere generale, passiamo nello specifico alla testimonianza di Natalino Mele. Nei suoi libri, Giuliana Mazzoni ci spiega – con abbondanza di esempi, tratti in verità da casi di presunti abusi sessuali – che i bambini possono ricordare ed essere testimoni attendibili solo a patto che gli interrogatori (o meglio le interviste o conversazioni protette) siano condotte da personale specializzato con tecniche adatte a non influenzare in alcun modo il racconto spontaneo del bambino. Occorre sempre evitare ogni domanda suggestiva, ogni menzione di elementi non già spontaneamente descritti dal teste, ogni atteggiamento minaccioso o premiale; in caso contrario, il bambino semplicemente si adegua a quanto ritiene che l'interrogante voglia sentirgli dire, fino a creare falsi ricordi interiorizzati di fatti mai avvenuti. Viene descritto l'esperimento condotto dallo psicanalista belga Julien Varendonck già all'inizio del secolo scorso. Varendonck aveva chiesto a due gruppi di bambini di età tra i 7 e i 12 anni di che colore fosse la barba del loro maestro. Sedici su ventinove bambini del primo gruppo e diciotto su diciannove bambini del secondo gruppo (i più grandicelli!) avevano risposto che la barba del maestro era marrone o nera; ma la risposta giusta era che il maestro non aveva la barba. Le risposte erano dunque state condizionate in primo luogo dalla domanda fuorviante e, sulla base di questa, dalla fantasia infantile. Varendonck aveva concluso che, per la propria suggestionabilità e tendenza a compiacere gli adulti ed a fantasticare, i bambini non sarebbero testimoni attendibili. In realtà, il trucco sarebbe di evitare accuratamente le domande inducenti e le situazioni di pressione psicologica; ma secondo gli esempi portati da Giuliana Mazzoni queste situazioni scorrette, per colpa degli adulti – parenti, amici, inquirenti e gli stessi psicologi – sussistono tuttora nei processi.


Figuriamoci quale fu la situazione nel 1968-70 al tempo delle plurime, contrastanti testimonianze di Natalino Mele. La verità sembra irrecuperabile, se si pensa ai suggerimenti ai quali senz'altro fin dal primissimo momento il bambino dovette essere soggetto. Né è degno di fede il racconto di essere arrivato da solo, se si ritiene che il bambino sia stato invece accompagnato da un parente, quindi dotato di autorità, che lo abbia imbeccato in itinere; né deve per forza essere la verità quella che riferisce in sede di sopralluogo, potendo essere vista come la scappatoia utile (chi poteva venirgli in mente se non il padre? – che aveva nel frattempo confessato e non sappiamo se gli era stato detto) alla blanda minaccia, che a noi può far sorridere, del M.llo Ferrero.
Più complesso è il caso del tardivo racconto sullo zio Piero, in quanto non sono ben chiare le modalità in cui lo stesso sorge. Chiuso in istituto, Natalino parla infatti di "Salvatore tra le canne" per poi confessare che si trattava di un suggerimento ricevuto; e lo sostituisce, (ma quando?), con un racconto apparentemente spontaneo –ma che potrebbe essere indotto da domande ricevute – sullo "zio Piero", aggiungendovi nel corso degli interrogatori particolari che a mio parere sono frutto di confabulazione. La verbalizzazione dei primi due interrogatori è indiretta e non consente di giudicare se le domande fossero in realtà inducenti. Già il G.I. Rotella in sentenza notò però un grave salto logico nella sequenza: 1. Se avesse sentito sparare 2. Chi ci fosse con il padre, in quanto viene dato per scontato che il bambino abbia visto il padre e che questi non fosse solo. Anche il particolare di aver visto gettare la pistola in un fosso – che potrebbe essere ben importante – può invece riflettere una rielaborazione dei colloqui avuti con il padre nella notte successiva al delitto, poiché corrisponde in effetti alla prima versione confessoria fornita da Stefano Mele.


Per concludere con Natalino, dopo aver più volte detto di non ricordare nulla, nel corso di un sopralluogo nel 1985 riferì di essere stato chiamato da una voce amica tra le canne, di cui non fa il nome, ma che "suppone" essere il padre. Ammesso che si voglia credere alle sue ricorrenti amnesie (al processo del 94 dirà di essere scappato da solo in direzione di una lucina che dal luogo del delitto era assolutamente invisibile), è il caso di notare che la contestualità ambientale può in effetti favorire l'emersione di ricordi apparentemente dimenticati.

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