venerdì 20 giugno 2014

Coincidenze (2)

La vicenda dell'album Skizzen Brunnen rinvenuto nel corso di una perquisizione in casa di Pietro Pacciani (2 giugno 1992) è troppo nota a chi si interessa del caso per dover essere ripercorsa nei dettagli. 

Si tratta, se davvero le commesse e il gestore del negozio non presero un colossale granchio, di una coincidenza epocale: quanti album di quel tipo, venduti in quel negozio di Osnabrueck in quel periodo saranno stati persi da turisti tedeschi distratti in giro per la campagna Toscana e poi finiti in una discarica per essere raccolti da un razzolarifiuti?

Provo a riassumere le circostanze per come le vedo io:

1. nel 1983 un ragazzo tedesco, ex studente di una scuola grafica (non di storia o filosofia) di Osnabrueck (non di Berlino), viene ucciso vicino a San Casciano ed il delitto attribuito al Mostro di Firenze;

2. nel 1992 a casa del principale sospettato (all'epoca) dei delitti viene reperito un album da disegno in vendita solo in Germania e Austria (non un album normalmente in commercio in Italia); 

3. richiesto di spiegarne la provenienza, il sospetto, dopo qualche palese bugia, afferma di averlo trovato in una discarica del paese; 

4. si accerta (più o meno, il grado di certezza non è assoluto) che l'album è stato venduto in un negozio di Osnabrueck (non di Monaco di Baviera), in periodo antecedente all'omicidio (non dopo); 

5. la sorella della vittima afferma che il fratello faceva uso di quel tipo di album (avrebbe potuto non usarli) ed era solito comprarli in quel negozio (avrebbe potuto comprarli altrove); 

6. la sorella della vittima, anch'essa studentessa di grafica, possiede un album della stessa marca, che lei, forse sbagliando, attribuisce al fratello, acquistato comunque nello stesso negozio (ma probabilmente in un tempo di poco successivo al delitto) e da lei usato in epoca non sospetta (ossia, non certo per incastrare il sospetto, di cui non poteva neppure immaginare l'esistenza).

Volendo ritenere, come sembra, che le testimonianze delle commesse (che riconobbero con diverso grado di certezza la propria grafia nella scrittura dei prezzi), del titolare del negozio Prelle-Shop (che ricostruì il numero di catalogo e la probabile data di vendita basandosi sulle fatture di acquisto e i prezzi di vendita al pubblico, della sorella Heidemarie (anche ammettendo l'errore di ricondurre l'acquisto dell'album da lei conservato al fratello), non sarà un indizio, ma certo è una coincidenza bella tosta.

Per amore di obiettività, segnalo, in una visione del tutto contraria, questo articolo di Enrico Manieri http://mostro-di-firenze.blogspot.it/2013/03/processo-pacciani-le-fatture-dei.html all'interno del quale sono state pubblicate le fatture di acquisto valutate nei processi a Pietro Pacciani.

Il parere dei periti grafologi fu acquisito nell'udienza del 29 giugno 1994 che si può leggere su Insufficienza di Prove.

mercoledì 18 giugno 2014

Coincidenze (1)


La storia delle indagini sul Mostro di Firenze è costellata di singolari coincidenze, alcune ben note, altre meno; alcune sopravvalutate, altre trascurate.

Comincio ad enumerarne alcune, iniziando dal primo duplice delitto, quello di Signa.

La mattina dell'omicidio, 21 agosto 1968, Stefano Mele, marito della futura vittima, lascia il lavoro e si fa accompagnare a casa da un collega, adducendo un malore, la cui vera natura non sarà mai accertata. La malattia del padre deve avere impressionato il figlio Natalino, visto che le prime parole che riporterà ai soccorritori, prima ancora dell'informazione che "la mamma e lo zio sono morti in macchina", sarà che il babbo "è malato a letto", la medesima espressione che userà il Mele la mattina dopo quando i carabinieri verranno a prelevarlo a casa. La sera, il cognato di Stefano, Piero Mucciarini, fornaio a Scandicci, ha il settimanale giorno di libertà dal lavoro; in seguito dirà di avere in quella occasione scambiato il turno di riposo con un collega (quindi di essere stato al lavoro), ma il fatto sarà indagato troppo tardi (nel 1984!) per essere confermato. Francesco V., abituale frequentatore del bar "della Posta" di Lastra a Signa quella sera non viene visto in giro; solo la moglie confermerà che l'uomo è rimasto a casa con lei. Salvatore V. passa la serata a giocare a biliardo con due amici; ma uno, interrogato con grave ritardo, non ricorderà, l'altro addirittura – ma molti anni dopo – sosterrà di aver sbagliato giorno. Stefano Mele, da parte sua, "indovinerà" il numero di colpi sparati (8), prima che siano resi noti i risultati delle autopsie, saprà che la scarpa della vittima maschile era sfilata, ricostruirà di aver spostato, nel ricomporre il cadavere della moglie, la leva della luce di direzione rimasta accesa e lampeggiante. Verrà trovato la mattina dopo il delitto, e dopo una notte che avrebbe passato "a letto malato", con le mani sporche di grasso (i CC ipotizzeranno, forse a torto, che se ne sia andato in giro in bicicletta). Sarà sottoposto al guanto di paraffina con esito (debolmente) positivo. Quanto a Natalino, dopo il delitto, solo o accompagnato che fosse, capiterà sotto casa di uno del "clan dei sardi", proprio uno dei presunti compagni della partita a biliardo di Salvatore. In seguito dirà che a sparare era stato lo "zio Piero", cambiando successivamente il nome in Pietro; degli zii di Natalino uno si chiamava Piero (Mucciarini), l'altro Pietro (o meglio, Pietrino Locci). Tralascio la coincidenza con il nome di battesimo di Pacciani perché non la considero significativa; anche se l'espressione "zio" usata da Natalino non è necessariamente significativa di un grado di parentela.

In corso di indagini, si verrà a sapere che la vittima femminile era stata minacciata da qualcuno uso a girare in motorino e armato di pistola; la descrizione ben si attaglia ad uno dei primissimi sospettati, che al processo venne poi completamente scagionato. Pochi giorni prima di essere uccisa, la donna era stata oggetto di una scommessa tra il sospettato e l'amante che sarà ucciso con lei. Infine, la vittima femminile era vissuta, prima del matrimonio, nella frazione di San Casciano (La Romola) in cui era nato e vissuto con la famiglia uno dei futuri "Compagni di Merende", Giancarlo Lotti. All'epoca anche Giancarlo Lotti, verosimilmente, andava in motorino, non avendo ancora conseguito la patente.

Una bella serie di coincidenze per essere il delitto d'esordio di un serial killer estraneo alle vittime.

sabato 7 giugno 2014

Delle testimonianze (9)


Del tutto diverso il discorso sulla chiamata in correità, che è prova che deve essere attentamente verificata a mezzo di riscontri intrinseci (verifica soggettiva, con riguardo a precisione, coerenza, costanza e spontaneità delle dichiarazioni) ed estrinseci (riscontri esterni sui fatti dichiarati) per poter essere accettata (art. 192 CPP c.3 e 4). Cito ancora: " La valutazione delle dichiarazioni del correo richiede, dunque, un duplice controllo. Occorre, in primo luogo, procedere alla verifica della credibilità del dichiarante (c.d. attendibilità soggettiva), in relazione, tra l'altro, alla sua personalità, alle sue condizioni socio-economiche e familiari, al suo passato, ai rapporti con i chiamati in correità e alla genesi remota e prossima della sua risoluzione alla confessione ed all'accusa dei coautori e complici; occorrerà, quindi, verificare l'intrinseca consistenza e le caratteristiche delle dichiarazioni del chiamante (c.d. attendibilità intrinseca), alla luce di criteri quali, tra gli altri, quelli della precisione, della coerenza, della costanza, della spontaneità; il giudice dovrà, infine, esaminare i c.d. riscontri esterni (c.d. attendibilità estrinseca) idonei a confermare l'attendibilità della chiamata (il descritto itinerario logico è indicato in Cass, s.u., sent. 1653 del 22-3-1993)."
E' questo dunque, la valutazione intrinseca ed estrinseca delle dichiarazioni del Lotti nei confronti del Vanni, il vero oggetto del processo ai Compagni di merende. Se questa valutazione, in tre gradi di giudizio, sia stata corretta; o se invece nel giudicare i riscontri si sia ricaduti in argomentazioni circolari in cui il teste funge da riscontro a sé stesso, non sta a me dirlo. Mi preme sottolineare che le imprecisioni e contraddizioni, anche gravi, del Lotti vengono giustificate nelle sentenze con il lungo tempo passato e il suo aver visto, alla fine, poco (e soprattutto niente di nuovo o diverso da quello che già si sapeva). Mentre l'attendibilità intrinseca della confessione contra se viene quasi data per scontata (chi si accollerebbe crimini così gravi se non li avesse davvero commessi? Quale innocente incasserebbe trenta anni di galera senza ritrattare?) trascinando con sé e validando (ma non dovrebbe accadere) la chiamata in correità.

Premesso che molto rimane da pubblicare e leggere, allo storico imparziale non possono non rimanere molti dubbi. Personalmente, non mi accontento, tuttavia, della constatazione che in molti punti dell'iter delle indagini e processuale il Lotti dice palesi bugie; questo è lapalissiano, viste le evidenti contraddizioni interne alle sue dichiarazioni. Ciò che interessa è, per quanto possibile, definire il come e il perché.

(FINE)

venerdì 6 giugno 2014

Delle testimonianze (8)


Concludo questa lunga serie sulle testimonianze con alcune considerazioni teoriche. 

Ci si chiede spesso come sia stato possibile addivenire a una sentenza di condanna in via definitiva sulla base di testimonianze tanto incerte e cangianti quanto furono quelle del Lotti e del Pucci. Tale dubbio non tiene conto, a mio modesto parere, della enorme rilevanza che nel nostro sistema processuale è attribuita alla testimonianza. Nel processo accusatorio, in cui le prove si formano nel dibattimento dinanzi ad un giudice terzo, la testimonianza è la prova tipica, tanto da essere definita prova-regina. Tanto maggiore la sua importanza quando, come avvenne al processo CdM, la testimonianza è anche confessione del reo. Parliamoci chiaro: nel momento in cui Lotti (e prima di lui Mele) confessano di aver partecipato ai delitti, la loro posizione è definitivamente compromessa; chi infatti può assumere la loro difesa, visto che non lo fanno, né lo possono fare, i loro avvocati? E' ben vero che il giudice dovrà valutare la loro attendibilità (escludendo quindi la mitomania, l'incapacità di testimoniare, la confessione per trarne vantaggio e procurare vantaggio ad altri ecc.), ma è evidente che, se non vi fosse stata un'attendibilità "necessaria e sufficiente", neppure si sarebbe arrivati al procedimento. La confessione è veramente, giusto o sbagliato che sia il nostro codice di procedura, prova regina e, a quel punto, una volta considerata astrattamente attendibile, spetta ad altri che ne abbia interesse (ma chi potrebbe essere?) dimostrarne la falsità assumendosi l'onere della prova. In sostanza, la confessione è prova di sé stessa e non necessita di riscontri esterni.
Cito da un sito giuridico:
"La confessione dell'imputato può essere posta a base del giudizio di colpevolezza anche quando costituisce l'unico elemento d'accusa, purché il giudice ne abbia favorevolmente apprezzato la veridicità, la genuinità e l'attendibilità, fornendo ragione dei motivi per i quali debba respingersi ogni sospetto di un intendimento
autocalunniatorio o di intervenuta costrizione dell'interessato” (cfr., da ultimo, Cass. Sezione 4,sent. n. 20591 del 5 marzo 2008). Tanto che, addirittura, “la confessione, pur soggetta, come tutte le prove orali, alla verifica di attendibilità, non subisce le limitazioni di cui ai commi terzo e quarto dell'art. 192 c.p.p. e non ha quindi bisogno di riscontri esterni” (cfr. Cass. Sezione 2, sent. n. 21998 del 3 maggio 2005).
Occorrono la coerenza interna e la convergenza esterna, ma non occorre invece la presenza di “riscontri” oggettivi positivi, propri della dichiarazione etero-accusatoria (sul fatto altrui) essendo sufficiente l’assenza di riscontri negativi, contrastanti con l’assunto (sui criteri di valutazione della dichiarazione contra se cfr., tra le tante, Cass., 17.2.92 Matha, RP 92, 852, CP 93, 2587; Cass. 21.12 94, Croci, CED 201417).

 Storicamente, infatti, il processo ai Compagni di Merende non verte praticamente mai sul tema della colpevolezza del Lotti in sé, di cui nessuno ha interesse a discutere, ma sull'attendibilità delle sue chiamate in correità (contro Pacciani – pur non coinvolto nel medesimo processo, Vanni e – indirettamente – Faggi). Assente per ragioni procedurali Pacciani, il processo è fondamentalmente nei confronti di Vanni, contro il quale il Lotti, reo confesso, è teste d'accusa.

martedì 3 giugno 2014

Delle testimonianze (7)


Sarebbe bello poter leggere il testo della telefonata intercorsa tra la Ghiribelli e Lotti il 25 gennaio 1996 in cui la teste Gamma pronuncia la famosa frase "Non ci si può fermare neanche a pisciare, l'hai detto tu!" (Giuttari, Il Mostro, pag. 137). E' importante notare che la frase sarebbe stata detta da Lotti in una precedente conversazione (telefonica?) tra i due il cui contenuto è sconosciuto, in quanto non vi era ancora l'autorizzazione ad intercettare l'utenza del bar. Fatto sta, in sostanza, che la frase che costituirebbe la prima ammissione da parte di Lotti di essere stato presente sul luogo e al momento del delitto (per lo meno nella data ufficialmente accettata e che successivamente – ma già nella perizia De Fazio – verrà assai dibattuta) non viene pronunciata dal Lotti, ma citata dalla Ghiribelli e da Lotti "non smentita", così assicura Giuttari. Nella deposizione in udienza il 3 luglio 1997, la Ghiribelli così riferisce: "Senonché dopo io telefono a Giancarlo. Telefono a Giancarlo a San Casciano e gli faccio: 'Giancarlo che puoi venire un attimo a Firenze, c'ho da parlarti?' Gli faccio: 'Giancarlo, come mai hai implicato me? Non è che per caso fosse tua la macchina che ho visto quella sera allora? E lui mi risponde: 'perché, non ci si può fermare nemmeno a pisciare?' Con questo s'è dato là zappa sui piedi da sé."


Una lettura integrale sarebbe utile per valutare il contesto della telefonata e la data precisa in cui avvenne, considerato che il primo riferimento alla fermata per bisogno fisiologico agli Scopeti dovrebbe risalire alla S.I.T. di Pucci del 2 gennaio 1996; ma la Ghiribelli era stata sentita dagli inquirenti prima il 21 e poi il 27 dicembre ed è molto probabile che la telefonata con Lotti di cui si parla in dibattimento si situi all'interno di questo intervallo temporale. In pratica, si potrebbe ipotizzare un iter del genere: 

15 dicembre 1995: Lotti viene sentito e parla della Ghiribelli in relazione alle frequentazioni di Vanni (e Pacciani?)

21 dicembre 1995: viene sentita la Ghiribelli e le si dice che Lotti ha fatto il suo nome, al che lei si inalbera con Lotti e lo accusa di essere il proprietario della macchina rossa da lei vista quella notte, ottenendone la scusa di essersi fermato per un bisogno fisiologico

27 dicembre 1995: viene risentita la Ghiribelli e parla dell'auto rossa

2 gennaio 1996: viene sentito Pucci e viene fuori ufficialmente e assai facilmente la versione della fermata dei due compari per bisogno fisiologico

23 gennaio 1996: viene risentito Pucci, che allarga il discorso alla volontà anche di spiare qualche coppia appartata agli Scopeti, ma ancora conferma il motivo principale del bisogno fisiologico

25 gennaio 1996: telefonata intercettata Ghiribelli – Lotti in sui si riferisce, parlando al passato, la frase: "Non ci si può fermare neanche a pisciare".

Se questa ricostruzione fosse esatta, la paternità della versione iniziale di Alfa e Beta, quanto meno riguardo alla motivazione della fermata, non sarebbe di Pucci, come si sostiene comunemente, ma del Lotti. Senza naturalmente poter escludere che la versione non sia concordata tra i due, ma conforme in quanto, semplicemente, veritiera. Nel qual caso, però, non si accorderebbe con la verità accertata in sede giudiziaria: Lotti era complice e non si fermò per pisciare, ma per fare il palo a Pacciani e Vanni.