sabato 16 agosto 2014

Ancora su Signa (3)

Vista del luogo del delitto dalla sponda opposta del Vingone

Proseguendo nella cronistoria, possiamo saltare all'estate 1982, quando dopo l'omicidio di Baccaiano in qualche maniera si scopre che l'arma del Mostro di Firenze era già stata usata a Signa e si apre la fase della "pista sarda". In prima battuta, il Mele, che ha scontato la pena da poco più di un anno, afferma, analogamente a quanto aveva fatto alla prima udienza del processo del 1970, la sua totale estraneità al fatto, adducendo di aver saputo dal figlio, già il 22 agosto, che ad uccidere era stato Francesco Vinci, ma di aver dapprima accusato il fratello Salvatore per paura di ritorsioni. E' presumibile che il diniego di responsabilità sia da attribuire al timore di subire un nuovo processo ed una condanna più grave, non rendendosi il Mele ben conto del fatto che non poteva essere giudicato due volte per lo stesso reato. Recederà da questa posizione solo dopo aver ottenuto un colloquio con il figlio Natale (il cui reale contenuto è ignoto), dopo il quale tornò a parlare di un omicidio combinato tra Francesco Vinci e lui stesso, pur non sapendone spiegare adeguatamente il movente, aggiungendo che la decisione era stata presa circa una settimana prima dell'omicidio. Si era nel frattempo più o meno accertata l'esistenza di una scommessa (in data non determinata e forse con annesso litigio) tra il Vinci e il Lo Bianco avente per oggetto i favori della Locci. In tale ottica, di delitto premeditato, potrebbe dunque tornare ad avere un senso la (presunta) malattia del Mele ai fini di crearsi un alibi; ma rimane valida la domanda: potevano i due complici sapere in anticipo che proprio quella sera la donna sarebbe uscita con il nuovo amante? Non vi sono elementi infatti per presumere che la serata al cinema fosse stata programmata in precedenza.

Nel gennaio 1984, dopo il delitto di Giogoli, l'attenzione degli inquirenti si sposta per forza di cose da Francesco Vinci ad altri componenti del clan sardo, in primis i parenti del Mele. Rosalia Barranca, vedova del Lo Bianco, ricorda un colloquio intervenuto, in occasione del processo di appello (1971) con il fratello di Stefano, Giovanni, nel quale questi le avrebbe detto "che gli dispiaceva per mio marito ma non per la cognata, giacché per loro la cognata era già morta prima che la si uccidesse", aggiungendo che "prima o dopo a qualcuno che era con lei sarebbe dovuto capitare". E' il primo, labile accenno ad un possibile complotto di famiglia per eliminare la donna. Il 24 gennaio viene sequestrato a Stefano, che, ad ennesima dimostrazione della sua inguaribile stupidità, lo conservava nel portafoglio, il famoso biglietto "Riferimento di Natale riguardo lo zio Pieto", con immediata nuova confessione di Stefano e, a ruota, mandato di cattura per i due cognati. Gli inquirenti sposano ora decisamente la pista del delitto di clan, premeditato ed organizzato dai cognati (e probabilmente sorelle) con la partecipazione di Stefano. In questa variante, l'alibi del marito, acquisito a mezzo della finta malattia, per quanto zoppicante, ha certamente un senso, che non avrebbe ove si accettasse una delle narrazioni precedenti (complicità con uno dei fratelli Vinci ed improvvisazione estemporanea del delitto).

(SEGUE)


2 commenti:

  1. Tra le ricerche più recenti sui delitti del MdF, quella di C.P., che la va esponendo in una serie di video di lunga durata e piuttosto ripetitivi, fa gran conto dell'apertura della pista sarda, ritenendola frutto di un depistaggio che, per le sue modalità di realizzazione, a partire dalla manipolazione di un fascicolo processuale, non può non attribuirsi, a suo dire, a uomini ben addentro all'universo investigativo-giudiziario, ad appartenenti alle forze dell'ordine, dei quali, peraltro, egli fa anche nomi e cognomi. L'analisi è ricca di dati interessanti; ritengo, tuttavia, che anche nella vicenda del MdF debba valere, come principio metodologico, il c.d. "rasoio di Occam", compendiabile nella frase latina "frustra fit per plura quod potest fieri per pauciora". Su un piano più concreto, se si ritiene, come fa C.P., che l'apertura della pista sarda (e non solo quella, ma anche l'appello al cittadino amico e il fascicolo o dossier o rapporto Parretti) sia un depistaggio per sventare le possibili conseguenze dell'errore commesso a Baccaiano, viene da chiedersi come persone addentro alle investigazioni sui casi dei duplici omicidi come quelle supposte dal P. potessero, dopo Baccaiano, allarmarsi al punto di alzare plurime cortine fumogene, mentre dovevano sapere benissimo, vivendo "a contatto" con le indagini, che il povero Mainardi non aveva avuto tempo di dire nulla, essendo stato raccolto in coma , per morire in ospedale dopo qualche ora (e che i titoli di giornale su ipotizzate ultime parole del ragazzo erano frutto di una trappola ideata dalla magistrata Della Monica), e che, nonostante l'azione omicidiaria avesse avuto complicazioni, gli inquirenti brancolavano nel buio come dopo i precedenti duplici omicidi.

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    1. Che brancolassero nel buio è senz'altro vero e lo conferma nella sua sentenza il giudice Rotella. E' però anche vero che proprio in quei giorni dopo il delitto di Baccaiano fu pubblicato sui giornali il famoso identikit risalente all'ottobre 1981 - cosa che mi è stata più volte sottolineata dall'ottimo Daniele Piccione - e forse evidenziata - a memoria non ricordo - nella relazione della Commissione Antimafia. Naturalmente può essere una innocente coincidenza temporale, ma potrebbe anche esserci un rapporto tra le due cose. E' peraltro vero che all'inizio di luglio vennero ricercati eventuali precedenti ai delitti già noti, il che spiegherebbe anche autonomamente il ricordo del M.llo Fiori.

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