domenica 7 settembre 2014

Aggiornamento


Dati i primi, incerti colpi di tastiera al secondo volume della "Storia del Mostro di Firenze – I delitti", ancora con il dubbio se non sia meglio passare direttamente al terzo, "Storia del Mostro di Firenze – I processi". Sarà un lavoro non da poco, che dovrà coesistere con altre attività di scrittura e di editing. Ci vorrebbe un'invocazione a Clio, Musa della Storia; ma non sono in grado di scriverla :-(.
 

5 commenti:

  1. E' da poco uscito in libreria "MdF. Storia del Mostro di Firenze" di Roberto Taddeo, e, per la precisione, il primo volume, recante il sottotitolo "La sequenza dei delitti e la pista sarda", della trilogia progettata dal menzionato autore. Benché nella prefazione di Daniele Piccione si dica non essere intenzione del Taddeo prendere "partito per una tesi o per un'altra" o collocarsi tra "gli alfieri di una ricostruzione" (pag. 12), si può tuttavia tentare di discernere qualche linea di tendenza nell'asserita obiettività dell'autore, in particolare nei riguardi dell'ipotesi dell'assassino seriale unico, che, nel caso dei delitti del "Mostro di Firenze", Taddeo vede esemplificata anzitutto, se non esclusivamente, nelle teorie (alla cui base vi sarebbe, nel caso dei delitti convenzionalmente indicati come delitti del MdF, una "martellante campagna mediatica") relative all'esistenza di un "sofisticato assassino seriale", le cui "scorie" "ancora oggi [...] suggestionano coloro che, in rifiuto delle sopravvenute evidenze storico-fattuali, teorizzano l'esistenza di un affascinante e inafferrabile - o meglio, inafferrato - assassino seriale solitario, mai entrato nelle indagini" (pag. 104). A pag. 211 si dice che la teoria del MdF come "serial killer unico" è "inesorabilmente scaduta già nel 1983"; involuti periodi espressivi di un atteggiamento critico verso la tesi in questione si leggono alle pagg. 383 e 385 dell'opera di cui si tratta. Ciò che l'autore citato sembra omettere di rilevare, tuttavia, è che il "serial killer unico" costituisce anzitutto una figura larghissimamente attestata nella realtà dei delitti seriali e, di riflesso, nella letteratura criminalistica, come da amplissima bibliografia, scientifica e divulgativa, cartacea e internettiana, sciritta e multimediale.

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  2. Un secondo punto, indicativo di linee di tendenza dell'autore del primo volume della trilogia "MdF. La storia del Mostro di Firenze", riguarda la questione della pistola. Egli più volte impiega espressioni trancianti nei confronti dell'opinione di coloro che escludono un passaggio di mano della pistola con la quale (salva, con riguardo al primo delitto della serie, l'ipotesi di una manipolazione del fascicolo processuale relativo al duplice omicidio del 22 agosto 1968) sono stati commessi gli otto duplici omicidi tra il 1968 e il 1985. Scrive Taddeo a pag. 212: "Non è una regola generale e non trova alcun fondamento giuridico, fattuale e statistico, se non, forse, in generiche chiacchiere da carcere, spesso mitizzate da troppi mostrologi o, ancora peggio, da molti criminologi, veri o presunti tali". Più che "chiacchiere da carcere", la "regola", che potrà ovviamente soffrire eccezioni, si basa su pensieri di senso comune, e cioè sul fatto che, ove con un'arma sia stato commesso un delitto, e specie se chi lo ha commesso è tra coloro che sono poi attenzionati/sospettati/indagati per il delitto stesso dagli inquirenti (o è vicino a coloro che sono attenzionati ecc.), darlo ad un'altra persona (specie se è un pregiudicato per omicidio, come, ad esempio, Pietro Pacciani, e gode fama di essere uomo violento) si rischia di finire tra i sospettati e magari tra gli indagati e gli imputati anche per i delitti che il "cessionario" della pistola andasse con questa eventualmente a commettere. La "regola", dunque, ha per fondamento un "buonsenso criminale" basato su considerazioni ovvie.

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    1. Qui siamo di fronte all'annosa e a mio parere irrisolvibile enigma dell'eventuale passaggio di mano della pistola. In questo ambito l'ipotesi più brillante mi sembra quella di Segnini, se non fosse che non si riscontra alcun motivo valido per cui Lotti dovesse essere quella notte sulle rive del Vingone a spiare l'appuntamento amoroso della Locci. Più modestamente, non ho risposte soddisfacenti all'enigma. Considerato che pare che la donna abbia previsto il proprio assassinio (sempre che sia vero), è molto probabile che questi fosse nel suo ambito di conoscenze. Poiché però i più diretti parenti e amanti sono esclusi dalle indagini, individuerei due possibilità: 1. uno spasimante della BL mai individuato, che poi continua, dopo anni a uccidere; 2. la pistola effettivamente passa di mano e influenza malignamente il nuovo possessore. Lei che ne pensa?.

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    2. Premetto che l'interesse dello scrivente per la vicenda del c.d. "Mostro di Firenze" è relativo soprattutto al lato processuale, in quanto caso esemplare di teratologia della "giustizia" penale italiana (come ottimamente illustrato nel Suo blog). Non volendo tuttavia sottrarmi alla Sua cortese sollecitazione, dirò che l'ipotesi di un passaggio di mano dell'arma appare, in quanto contraria a una regola di "buonsenso criminale", meno probabile di quella opposta (l'ipotesi di A.S. mi sembra semplicemente inverosimile, non essendo - tra i numerosi motivi d'inverosomiglianza - credibile che, se ci si vuol disfare di un'arma, lo si faccia abbandonandola a brevissima distanza dal luogo del delitto, quando la cronaca nera c'insegna che l'arma che si vuol far sparire viene ordinariamente gettata via lontano dal luogo del delitto, tanto che non è rarissimo che nemmeno un reo confesso riesca a farla ritrovare). Detto questo, e premesso altresì che lo Stefano Mele assassino solitario della moglie e del suo amante p.t. appare inverosimile, ci si scontra con gli ostacoli: l'ipotesi del serial killer unico consente di "immaginare" una figura che corrisponda in qualche modo all'uno o all'altro dei profili che ne dà la riflessione criminologica della vicenda (profilazione che è compito da prendere a mio avviso sul serio, perché è in relazione con l'aspetto della individuazione del movente, che è essenziale, poiché il porre in essere atti antisociali, ripugnanti e rischiosi come i duplici omicidi del "MdF" presuppone necessariamente un fortissimo interesse, in senso lato, a compiere tali atti, ossia una fortissima spinta, ovvero appunto il cosiddetto "movente"), ma ipotizzarlo estraneo al "clan dei sardi" implica che si debba tentare di scollegare il duplice omicidio del 1968 dalla sua spiegazione più lineare, banale e probabile, per non dire ovvia (una vendetta nei confronti della donna da parte di uno o più uomini del clan), mentre, se lo si pensa come uno dei sardi, ci si scontra con il fatto che, nonostante il rilevantissimo impegno investigativo profuso soprattutto dai CC e dal G.I. Rotella, non è emerso nessun elemento che legasse in concreto qualcuno del clan dei sardi ai delitti del "MdF" (a parte la pistola).

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    3. Disfarsi dell'arma sul posto può avere senso solo nel caso che la stessa non sia in alcun modo collegabile all'autore (qui Segnini sbaglia, a mio parere, nella sua pur suggestiva - ma romanzesca - ipotesi). Quindi potrebbe trattarsi di una pistola rubata, resa irriconoscibile o magari fortunosamente trovata a seguito dello sconquasso causato dall'alluvione del 1966, come spesso si è ipotizzato. Al di fuori di questi casi, ritengo che fosse indispensabile per l'autore occultare o mancor meglio distruggere l'arma del delitto. Certo è singolare la disinvoltura con la quale la Procura passò da accusare Pacciani anche del primo delitto ad ipotizzare un passaggio di mano, forzando l'ipotesi Francesco Vinci e i suoi presunti contatti con Pacciani.

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