lunedì 12 gennaio 2015

Gerarchia delle fonti per lo studio del caso del Mostro di Firenze (3)


Secondo il C.P.P. (art. 544 e 546 ) la sentenza deve contenere "la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, con l'indicazione delle prove poste a base della decisione stessa e l'enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie", in altre parole, la propria motivazione. Stendiamo un velo pietoso sulla caratteristica della concisione: quasi tutte le sentenze sul caso del Mostro di Firenze (non ho potuto vedere quelle dei processi a Stefano Mele, dal 1970 al 1973) sono dotate di una cospicua parte narrativa nella quale, volta per volta, viene ripercorsa l'intera vicenda. Tuttavia, la prolissità dei magistrati può rivelarsi utile per lo storico, sia per capire meglio il processo logico-deduttivo che ha condotto il giudice a pronunciarsi in un determinato modo, sia perché, soprattutto, l'estensore scrupoloso riporta, a supporto del proprio ragionamento, brani più o meno ampi di atti giudiziari precedenti che altrimenti non sarebbero noti - o quanto meno li riassume. Ad esempio, la sentenza di appello al processo "Compagni di merende" (31.05.1999) riporta un significativo stralcio del confronto tra Lotti e Pucci del febbraio 1996 e riassume molto utilmente le dichiarazioni rese in diversi momenti dai testimoni intervenuti subito dopo l'agguato di Baccaiano. Paradigmatica la sentenza del GIP Micheli nel procedimento sul "caso Narducci" (aprile 2010, ma depositata due anni dopo), che nella sua abnorme mole ha il merito di riproporre testualmente lunghi excerpta tratti dalla requisitoria del PM Mignini, cosicché il lettore accorto può rendersi conto direttamente della fondatezza o meno dell'impianto accusatorio, al di là di quanto deciso dal giudice di merito. La lettura delle sentenze costituisce dunque sia un'utile integrazione alla ricerca delle fonti primarie, sia, per il suo carattere narrativo, uno strumento indispensabile a delineare la storia delle indagini, senza il quale si rimarrebbe limitati a quanto riportato dalle fonti di stampa. In tal senso, ad esempio, la sentenza Rotella è sia "fonte" (secondaria) sia narrazione (ma di prima mano, in quanto basata direttamente sugli atti di indagine) necessaria a documentare la "pista sarda".

Personalmente, pur non disconoscendone affatto l'importanza, nutro una certa diffidenza sul valore quale fonte narrativa dell'intervista giornalistica a protagonisti diretti del caso, sia essa pubblicata a mezzo stampa, in video, o, come sempre più spesso succede oggi, in rete. Questo fondamentalmente per due motivi. Il primo, e ovvio, è che l'intervistato, al di fuori di qualsiasi vincolo giuridico, dirà solo quello che vuol dire nel modo in cui lo vuole dire, tacendo quello che ha interesse a tacere, per un qualsivoglia, anche più che legittimo, motivo; né l'intervistatore ha modo di indurlo ad una maggiore sincerità. Secondariamente, quando l'intervista viene condotta a lunga distanza dai fatti, valgono le considerazioni già fatte per le testimonianze in udienza; con l'aggravante che di norma il teste convocato in tribunale ha tutto il tempo e l'interesse a raccogliere i ricordi per fornire una testimonianza accurata, il che non è di fronte a un giornalista delle cui domande non occorre preoccuparsi più di tanto. Nelle interviste pubblicate o diffuse in rete le imprecisioni abbondano, certo non per malafede dei soggetti intervistati, ma per approssimazione, cattivo ricordo, anche solo espressioni verbali non felici e conseguentemente poco chiare. E' di tutta evidenza che un'intervista che sia in contrasto con una fonte primaria può essere tenuta in poca considerazione, a meno che il contrasto non venga adeguatamente giustificato.

(SEGUE)

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