giovedì 17 agosto 2017

Signa - aggiornamento










Devo alla cortesia dell’amico Antonio Segnini la possibilità di leggere due documenti per me inediti relativi al delitto di Signa (qui).
Si tratta della richiesta di rinvio a giudizio di Stefano Mele avanzata dal sostituto procuratore Antonio Spremolla in data 30 settembre 1969 e della conseguente sentenza di rinvio a giudizio pronunciata dal consigliere istruttore Gian Gualberto Alessandri il successivo 6 novembre. Sono quindi in debito ai lettori del mio “Volume I” di un aggiornamento.

In verità, tali documenti apportano ben poco di nuovo al quadro già conosciuto, ma permettono forse di entrare meglio nell’idea che del caso si erano fatta gli inquirenti; Spremolla e Alessandri sono infatti i due magistrati che, a parte i primi atti immediati, condussero, in un ruolo che all’epoca era concomitante, l’istruttoria.

Riassumo sinteticamente di seguito le risultanze dell’indagine, con qualche spunto critico.

Secondo gli inquirenti la presenza del Mele è certa, provata da quattro elementi: la conoscenza del luogo del delitto per avervi condotti i carabinieri in sede di sopralluogo; la conoscenza del numero dei colpi sparati; il particolare della scarpa del Lo Bianco (vedi infra); il particolare della luce di direzione accesa; Spremolla aggiunge la conoscenza dello stato dei vetri dei finestrini, la conoscenza della posizione dei corpi. A ben guardare, sono tutti elementi già presenti nel rapporto Matassino, quindi si potrebbe dire che le indagini successive non hanno apportato nulla di nuovo rispetto a quanto prospettato nel rapporto giudiziario del 21 settembre 1968.

Le accuse ai fratelli Vinci e a Carmelo Cutrona sono calunniose, come dimostra la variazione dei soggetti a seconda delle circostanze. E’ qui importante un passaggio, peraltro già noto, di Spremolla: “l’accusa contro il Vinci Francesco viene meno quando il Mele viene richiamato a un maggior senso di responsabilità e suggestionato dall’esito di un accertamento peritale nei confronti del Cutrona, lo accusa (…)”. Si parla naturalmente della prova del guanto di paraffina, che diede esito positivo per Cutrona (e negativo per Francesco Vinci). Siamo al 26 agosto e a questo punto Mele ha già cambiato cinque versioni: da una prima dichiarazione di totale inconsapevolezza del fatto, ha accusato Salvatore Vinci, si è poi autoaccusato (senza citare alcun complice; in sede di sopralluogo, passaggio su cui Matassino sorvola, ma viene citato da Spremolla – sulla base di quale documentazione non si sa, visto che, a dire di Rotella, non esiste un verbale di sopralluogo), indi ha chiamato in correità Salvatore, poi lo ha discolpato e accusato Francesco. Ma insomma, quante siano le versioni, a partire dalla confessione (quattro schiaffoni?) esse sono tutte suggerite dall’esterno; il passaggio da Salvatore a Francesco per la notizia dell’alibi di Salvatore (leggasi partita a biliardo con Antenucci), quello da Francesco a Cutrona in seguito all’esito del guanto di paraffina.

Questa estrema facilità di adeguamento del Mele agli sviluppi dell’indagine (ad esempio, ammetterà prontamente di aver accompagnato lui Natalino non appena saprà che il bambino lo ha confessato nel corso della ben nota passeggiata in compagnia del mar.llo Ferrero), rilevata da Spremolla, condizionerà tutte le indagini post 1982 e il non essersene reso conto costituisce a mio parere il più grave errore commesso da Rotella. Bisogna sempre tener presente che al Mele fu diagnosticata dai periti un’oligofrenia di grado medio, quindi quello che abbiamo recentemente scritto su queste pagine a proposito della testimonianza Pucci ( qui ) vale interamente anche per le dichiarazioni del Mele.

Quanto a Natalino, Spremolla e Alessandri non credono a Natalino 3 (lo zio Piero). Spiega Alessandri: “Né può prestarsi fede alle indicazioni di Natalino Mele su un certo Mucciarini Pietro, (…). L’esame psicologico, cui è stato sottoposto il minore, mentre spiega clinicamente certe amnesie manifestate dal bambino nei suoi esami (ossia gli interrogatori dell’aprile - maggio 1969) ammette che il ricordo dei fatti da parte dello stesso possa non essere obiettivo”. Apprendiamo quindi che vi fu una consulenza psicologica su Natalino, della quale nulla sappiamo (almeno io; chi ha letto il libro ricorderà che  contiene un’intervista con una psicologa dell’età evolutiva incentrata sull’argomento). Ovviamente, gli inquirenti non si pongono il problema di quanto spontanea e veritiera sia stata la “confessione” al maresciallo Ferrero.

Altri particolari poco noti che emergono dai due documenti sono i seguenti. Mele sarebbe stato al corrente del luogo dove la moglie era solita appartarsi con gli amanti. “(Mele) era consapevole, per averglielo rivelato la moglie, e in altra occasione il Vinci Francesco, come essa fosse solita recarsi ad amoreggiare nella località dove è avvenuto il fatto; questa località era comunque raggiungibile anche a piedi (!), se non con la bicicletta del Mele stesso” (Spremolla). Considerando anche il tragitto fino a casa De Felice sarebbero comunque circa 14 km. La fonte di questa informazione può solo essere Stefano Mele, va quindi presa con le molle.

Un altro aspetto critico che il P.M. cerca di giustificare è la vexata quaestio dei colpi sparati contro la Locci. Come si sa, infatti, tre colpi hanno direzionalità da sinistra a destra, uno, quello alla spalla, da destra a sinistra. Secondo Spremolla, probabilmente sulla base della famosa perizia balistica Zuntini che quasi nessuno ha letto, “il primo colpo di pistola la raggiunse alla spalla fermandosi in cavità scapolare. Esso immobilizzò la donna che si rovesciò sul fianco destro esponendo all’arma la faccia posteriore dell’emitorace sinistro raggiunto da un secondo colpo con traiettoria dal basso verso l’alto (…) la vittima fu poi in analoga regione raggiunta da altri due colpi”. Il problema è però il solito; perché la VF venga colpita alla spalla sinistra da uno sparatore che faccia fuoco dal lato sinistro dell’auto bisogna che sia girata verso il parabrezza o quanto meno verso la portiera destra. Scrive De Fazio: “all’inizio dell’azione omicidiaria la donna poteva essere in qualche modo protesa dal sedile sx a quello dx col busto ed il capo verso il corpo dell’uomo”; proprio questa sembrerebbe del resto la posizione in cui Mele fece disporre i due sottufficiali dei CC nella famosa simulazione. Non mi addentro in altri tentativi di ricostruzione, che sono al di sopra delle mie capacità, ricordando che sul sito “Calibro 22” di Master se ne può leggere uno molto approfondito ( qui ).



 Un altro particolare che viene dato per assodato dai due magistrati è che la Locci pagò il cinema; ciò nell’ottica di dimostrare che il delitto era nato da questioni di interesse e non per gelosia/onore. Questo elemento è ripreso però dall’interrogatorio di Natalino, poiché il gestore del cinema aveva dichiarato che a pagare era stato il Lo Bianco; si tratta di un particolare a mio giudizio poco importante.



La scarpa del Lo Bianco merita un piccolo approfondimento. Sappiamo dal verbale di sopralluogo di Ferrero che quando il maresciallo aprì la portiera sinistra, una scarpa del Lo Bianco cadde a terra, il che significa che era rimasta in bilico all’interno; ma Lo Bianco si era trasferito a destra sul sedile reclinato del passeggero. Matassino attribuisce lo spostamento di quest’unica scarpa all’azione di Mele, che, come lui stesso afferma, ha parzialmente ricomposto i corpi. L’episodio è ricordato anche da Rotella nel descrivere la confessione del Mele. Senonché la scarpa viene trovata dentro l’auto; ma Mele, nell’interrogatorio del 3 febbraio 1969 dinanzi al G.I., testualmente dice: “Poi il Vinci aprì lo sportello e ricordo che cadde una scarpa del lo Bianco, che si lasciò lì”. In questo interrogatorio non vi è menzione della ricomposizione dei cadaveri e la scarpa cade da sola e rimane fuori; una scena diversa da quella trovata da Ferrero al suo arrivo sul luogo del delitto. La spiegazione più semplice è che Mele abbia menzionato il particolare della scarpa involontariamente tolta al Lo Bianco reagendo a una suggestione in corso di sopralluogo del 23 agosto e abbia poi dimenticato la spiegazione; i particolari inventati e non frutto di esperienza vissuta si dimenticano più facilmente.

L’interrogatorio del 3 febbraio è anche interessante per il passaggio finale: “Invitato a spiegare la ragione per cui invece di portare a casa il bambino lo abbia invitato a suonare a quell’abitazione dopo quanto era accaduto, l’imputato si stringe nelle spalle e non risponde”. Se ne può concludere che, se l’accompagnamento c’è stato, Stefano può anche averlo materialmente eseguito, ma non ne conosce il motivo; o può non saperne nulla perché non si trovava sul luogo (quale errore fecero i CC a non fargli ripercorrere la strada che portava a Sant’Angelo a Lecore nell’immediatezza, per sincerarsi della sua effettiva conoscenza del percorso!); o, infine, il bambino è andato da solo.

Alla fine, cosa dovremmo ricavare di nuovo da questi documenti, come pure dai nuovi passaggi degli interrogatori di Mele contenuti nella prima parte del volume “Al di là di ogni ragionevole dubbio” (libro che ogni mostrologo dovrebbe studiare in maniera approfondita)? Soprattutto la totale inaffidabilità delle diverse versioni di Stefano Mele, sulla quali non è possibile fondare alcuna ipotesi. In altre parole, quando Mele accusa altri di correità, non è attendibile; che abbia commesso il delitto da solo viene rifiutato da tutti (a parte gli inquirenti dell’epoca); nasconde un segreto, come credeva Rotella o, più semplicemente, non sa nulla? Il suo non sapere e parlare a vanvera scagiona gli altri sospettati? Solo in parte; infatti ciascuno degli amanti della Locci – noti e ignoti – o altri soggetti – familiari e non -  poteva avere le proprie ragioni per uccidere la donna indipendentemente dalla partecipazione del marito al delitto. 

A questo punto della ricerca permangono due motivi ancora cogenti per giustificare la “pista sarda” in senso lato (non limitata ai fratelli Vinci e ai parenti di Stefano): l’improbabilità psicologica (non impossibilità fisica) della passeggiata notturna di Natalino, la predizione della Locci sul proprio destino di "essere sparata" mentre faceva l’amore in macchina.